SOPHIA CATALANO, FABRIZIO MEROI (a cura di), La filosofia italiana. Tradizioni, confronti, interpretazioni

 

Sophia Catalano, Fabrizio Meroi (a cura di), La filosofia italiana. Tradizioni, confronti, interpretazioni, Firenze, Olschki, 2019.

Recensione di Salvatore Grandone

Non è semplice legare il concetto di filosofia a quello di nazionalità. Sebbene vada da sé, per ragioni anche pratiche, parlare di una “filosofia tedesca”, di una “filosofia francese” e, nel caso che qui ci interessa, di una “filosofia italiana”, cosa si intenda in modo preciso con tali espressioni non è scontato. È facile cadere in stereotipi: ad esempio nell’immaginario collettivo, soprattutto scolastico, la filosofia tedesca incarnerebbe il pensiero sistematico per eccellenza; la filosofia francese sarebbe dominata dallo spirito analitico, mentre quella inglese metterebbe al centro l’esperienza. All’interno di questo modo semplicistico di ragionare la filosofia italiana non sembra avere un’identità ben precisa, sia per il suo presunto provincialismo sia per motivi storico-culturali (le questioni dell’unità nazionale e della lingua). Ora, il volume edito dalla Olschki – che nasce da un convegno tenutosi presso l’Università di Trento nel 2017 – supera questi luoghi comuni, offrendoci un’immagine aperta e problematica della filosofia italiana. I diversi saggi prendono in esame prospettive esterne e interne e si articolano principalmente su tre livelli: la ricezione della filosofia italiana all’estero, i grandi filosofi italiani lettori della storia della filosofia italiana, l’originalità e la modernità dei pensatori italiani nel contesto internazionale.

Negli articoli di Annarita Angelini («Fare a Parigi ciò che i Medici hanno fatto a Firenze». L’Umanesimo italiano secondo i riformatori francesi del Cinquecento) e di Brian P. Copenhaver (Vico’s peninsular philosophy. A problem for anglophonia) è tematizzata la ricezione della filosofia italiana all’estero. Si tratta di un aspetto importante, perché le immagini della filosofia italiana sono determinate anche dal modo in cui essa è rappresentata al di fuori dei confini nazionali.

Nel saggio di Paolo Bonafede, Ritornare alla persona, troviamo un interessante confronto tra i concetti di persona in Maritain e Rosmini. L’autore sottolinea l’attualità del pensiero rosminiano: a differenza di Maritain, che analizza il problema della persona in chiave soprattutto metafisica e neotomista, Rosmini è infatti più sensibile alla complessità della persona nelle sue declinazioni pratiche e antropologiche, più attento alla «concretezza del soggetto umano» (p. 85).

Nel contributo di Sevgi Doğan (Can we talk about national philosophies? An overview through Bertrando Spaventa’s thought) si riprende la questione della filosofia italiana partendo dal pensiero di Bertrando Spaventa. Il filosofo idealista ha avvertito la forte tensione tra la vocazione universale della filosofia e l’esigenza di reperire gli elementi di una via italiana alla riflessione filosofica. Per Spaventa senza nazione non si dà filosofia nazionale, e la nazione è un prodotto dello spirito (p. 103). L’autrice cita un significativo passo della Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nell’Università di Napoli, che è paradigmatico per comprendere come l’idealismo italiano (e non solo) abbia interrogato il problema della filosofia nazionale:

«Sono possibili, dopo il medio evo e ne’ tempi moderni, tante filosofie nazionali, quanti sono i popoli civili di Europa? O invece quelle che si dicono filosofie nazionali non sono altro che momenti particolari dello sviluppo comune della filosofia moderna nelle diverse nazioni? Si può dire, p. es., che ci sia una filosofia italiana essenzialmente diversa da una filosofia francese, inglese, tedesca come si dice che ci è stata una filosofia greca essenzialmente diversa da una filosofia indiana? E in generale, il genio proprio originario d’una nazione, il quale si specchia e si riconosce così nettamente nella lingua, nella letteratura e nell’arte in generale, e ne’ costumi, deve e può discernersi anche – oggigiorno e in Europa – in quella forma e attività universale dello spirito, che si chiama filosofia?» (p. 103)

 Al di là della cornice idealista, queste domande conservano oggi la loro validità e inquadrano l’orizzonte di senso in cui si inscrive ogni ricerca sulla nazionalità della filosofia. Le coordinate imprenscindibili per orientarsi sono infatti la necessità di legittimare il rapporto nazione-filosofia nazionale, la prospettiva eurocentrica sulla filosofia italiana e la relezione filosofia e filosofie nazionali.

Quasi a rilanciare dal “basso” l’interrogazione di Spaventa, Marcello Musté segue il percorso del marxismo in Italia (Marxismo e filosofia della praxis). Per Musté il marxismo italiano si caratterizza prima di tutto come filosofia della praxis. Tale peculiarità «nacque da tre esigenze fondamentali: un processo di sprovincializzazione del marxismo che si accompagnò a uno sforzo inedito di mediazione con la tradizione nazionale; una critica ricorrente al ‘materialismo’ filosofico; l’istanza di ‘ritorno a Marx’, come tentativo di superare le ‘combinazioni’ che avevano caratterizzato la parabola del marxismo dopo il 1883» (p. 112). Come per altri correnti filosofiche che non hanno una radice autoctona nel nostro paese, anche il marxismo è recepito dai filosofi italiani in modo originale, prendendo come asse di riferimento la “prassi”. Labriola e Gramsci diventano così emblematici di un marxismo che vuole mantenere vivo il contatto con Marx senza cadere nell’ideologia.

Nel contributo di Francesco Nappo, Croce e l’estetica della scienza, si ritorna sull’idealismo, ma questo volta per avanzare un’interpretazione stimolante di alcuni luoghi della filosofia crociana. Nappo argomenta come nel filosofo italiano non ci sia affatto una distinzione così netta tra scienza e arte. Non mancano infatti passi in cui Croce concepisce «l’attività della scienza come analoga a quella della produzione artistica, e come soggetta ad analoghe valutazioni» (p. 139). In tal senso la posizione di Croce sembra allora in linea con quella di tanti filosofi contemporanei.

Negli ultimi tre saggi di Fabrizio Meroi (Giuseppe Rensi e la filosofia italiana), Sophia Catalano («Ciò che mi spinge ad un accordo con te è una specie di istinto». Le lettere di Enzo Paci a Eugenio Garin) e Fabio Mengali (Soggettività e conflitto nell’operaismo italiano) il problema della filosofia italiana è collocato nel dibattito del Novecento. Lo “scetticismo” come elemento distintivo della filosofia italiana (Rensi), la dialettica storicità-perennità della filosofia (Garin-Paci) e la diffusione in Italia negli anni ‘60 di un pensiero militante e incarnato che dialoga alla pari con la filosofia engagée francese sono tre ulteriori tasselli che arricchiscono e completano il panorama.

In conclusione, la ricchezza approcci e l’assenza di pregiudizi di scuola rendono questo volume prezioso per chiunque voglia cercare delle piste – e non facili risposte – da seguire negli articolati sentieri della filosofia italiane e delle sue molteplici identità.