EMANUELA CHIAVARELLI, Il ritorno di Dioniso

 

 

Emanuela Chiavarelli, Il ritorno di Dioniso. Ritualizzazione di un archetipo, Roma, Bulzoni, 2020

Recensione di Salvatore Grandone

Il saggio di Emanuela Chiavarelli offre una lettura psico-antropologica del presente attraverso la figura archetipica di Dioniso.

L’autrice osserva:

«In una cultura aperta alle più moderne tecnologie, in cui nulla è stabile e tutto muta vertiginosamente, non può che palesarsi […] per contrasto un ritorno al passato: una sorta di imbarbarimento. Gli archetipi – immagini primordiali, ambivalenti modelli simbolici depositati nell’Inconscio Collettivo come patrimonio di riferimento – tendono a riattualizzarsi, allora, con un processo dilagante di cui è necessario interpretare i segnali per decifrarne e fronteggiare l’eventuale risvolto distruttivo» (p. 117).

Così in un’epoca di “crisi”, nel senso più profondo della parola, come la nostra, Dioniso diventa il mito che ne incarna meglio le contraddizioni. Dioniso è un simbolo ossimorico in cui gli opposti coesistono (vita e morte, perdizione e salvezza, essere e apparire) e la perdita di punti di riferimento rappresenta una fase di “transizione-trasformazione”. Tuttavia, nelle civiltà antiche e arcaiche, dove la dimensione del sacro era centrale, i riti di passaggio connessi alla figura di Dioniso conducevano l’individuo alla scoperta di nuovi orizzonti di senso. Al contrario, la ritualità dionisiaca spesso sottesa all’essere nel mondo dell’uomo contemporaneo è portatrice soprattutto di una componente distruttiva.

Chiavarelli mette bene in luce questo aspetto:

«Il dio della maschera, dell’ebbrezza irrazionale, delle danze che, ritmiche e cadenzate come i suoni più arcaici, aggregano i giovani, rivela ancora un malcelato risvolto iniziatico e sacrificale nei frequentissimi incidenti del sabato sera. Il suo rapporto con il teatro pare riattualizzato, tra l’altro, proprio nell’ossessiva esigenza di teatralizzazione espressa dai selfie come espediente di visibilità e garanzia di esistenza in un mondo in cui il virtuale sembra prendere progressivamente il posto della realtà. Lo spazio del tempio, epifania del tempo sacro è, ormai, sostituito da Internet, mentre il gioco rituale che collegava al divino, sfocia nel gioco d’azzardo. Le emozioni forti, sfuggite alla dimensione spirituale, sono incentivate, ormai, dal denaro, attuale, illusorio feticcio» (p. 43).

Molti sono quindi i sintomi della nostra società che mostrano questo ritorno a Dioniso: la teatralizzazione dei comportamenti (violenti e non violenti), il desiderio di mascherarsi e di ridursi a maschera, l’esaltazione della morte e del pericolo. Con la “morte di Dio”, Dioniso sembra imporsi, ma in una variante secolarizzata e inquietante. Il ritirarsi del sacro priva infatti le odierne ritualità dionisiache di una dimensione escatologica. Rimane solo una vaga e confusa esigenza di ritorno a qualcosa di primigenio. Siamo quindi ben lontani dall’ “incantesimo del dionisiaco” descritto da Nietzsche ne La nascita della tragedia:

«Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame tra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. […] Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di volarsene in cielo danzando. […] L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza e il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento dell’unità originaria» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere Complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, vol. III t. I, 1982, pp. 26, 27).

Le odierne danze dionisiache non avvicinano però le persone: la prossimità è solo fisica; così come la ciclicità parossistica dei “tempi moderni”, dominata da un puro volere fine a se stesso, non genera affatto la riconciliazione con la terra. E se l’uomo è divenuto un’opera d’arte, lo è nel senso di una deformazione carnevalesca del proprio apparire attraverso il maquillage o la chirurgia estetica. D’altra parte, se è vero che nel mondo contemporaneo il ritorno a Dioniso assume toni cupi, Chiavarelli sottolinea anche come sia solo andando a fondo nelle contraddizioni dei simboli del nostro Inconscio collettivo che possiamo ritrovare un filo di Arianna. Detto con un celebre distico di Hölderin – ripreso anche da Heidegger ne La questione della tecnica –: «lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva».