MARIA DONZELLI, L'età dei barbari. Giambattista Vico e il nostro tempo

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Maria Donzelli, L’età dei barbari. Giambattista Vico e il nostro tempo, Roma, Donzelli, 2019

Recensione di Salvatore Grandone                                                

«Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze» (Vico, Scienza nuova)

 

L’età dei barbari non è l’ennesimo libro su Vico, né la “solita” introduzione al pensiero di un grande filosofo. Il volume presenta un taglio critico profondo, che rende interessante e originale il percorso dell'autrice. Per Maria Donzelli occorre ritornare sulla modernità di Vico e valutarla da un duplice punto di vista: rispetto al suo tempo e riguardo alla nostra contemporaneità. Se Vico è un classico, allora la sua filosofia serba un impensato che merita un incessante sforzo ermeneutico. Tale modernità è l’aspetto su cui gli interpreti continuano a dibattere senza sosta, elaborando tesi anche contrastanti. La cosa non deve ovviamente meravigliare: un classico genera, per definizione, accesi conflitti di interpretazioni.

Donzelli affronta la modernità di Vico prendendo subito le distanze da alcuni luoghi comuni storiografici e dalle “vulgate” vichiane (ancora visibili in diversi manuali scolastici) – ad esempio la nota identificazione del pensatore napoletano con il filosofo dei “corsi e ricorsi” storici. D’altro canto, la modernità dell'opera vichiana per i lettori odierni – tema affrontato in modo esteso da Donzelli nell’ultimo capitolo del saggio – mostra come la sua riflessione sia anche uno strumento e un monito per pensare l’oggi.

Riprendiamo brevemente le questioni toccate dall’autrice. In merito alla modernità di Vico nel suo tempo, Donzelli si sofferma sui rapporti Vico-cartesianesimo, Vico-sagesse moderne. Un importante filone storiografico, soprattutto di matrice idealista, ha rappresentato il cartesianesimo napoletano come un blocco monolitico contro cui si scaglierebbe il pensiero vichiano. La situazione è invece più complessa:

«La storiografia idealista ha contribuito – osserva Donzelli – a considerare il cartesianesimo diffuso nella cultura napoletana del XVII secolo come un sistema rigido, univoco, retrogrado nel suo insieme: con il risultato di sottolineare l’isolamento di Vico e di presentarlo come il grande detrattore di René Descartes. In realtà, tra la fine del XVII e i primi anni del XVIII secolo, il cartesianesimo rappresenta il flusso più vitale della cultura napoletana, che, attraverso Descartes, si integra nella circolazione europea delle idee politiche, scientifiche ed economiche» (p. 15).

All’interno del cartesianesimo napoletano sono reperibili almeno due correnti: la prima vede in Descartes «la possibilità di affermare una ragione critica, problematica e “prudente”» (p. 16), la seconda si avvale invece del pensatore francese per sviluppare una riflessione astratta e politicamente conservatrice. Per comprendere allora l’attacco di Vico al cartesianesimo bisogna distinguere il piano della teoria, dove il filosofo napoletano sottolinea i punti di fragilità del sistema cartesiano, da quello della "prassi" in cui Vico polemizza contro gli intellettuali che ricorrono a Cartesio per giustificare il disimpegno politico e un’ideologia reazionaria.

I due fronti di lotta anticartesiani trovano una sintesi nel ruolo che Vico affida alla filosofia e al filosofo. Fondare una scienza della storia non è solo il risultato della critica al concetto cartesiano di verità e alla scoperta dell’intrinseca relazione vero-fatto. Si tratta infatti di pensare il filosofo come intellettuale engagé, di agganciare il sapere critico alla realtà e all’esperienza, di riscoprirne le radici storiche nella sapienza poetica.

Queste considerazioni aiutano anche a tracciare il rapporto tra Vico e la sagesse moderne. La querelle antichi-moderni non è letta da Vico in modo sterile. Essa funge infatti quasi da pretesto per approfondire il concetto di sapienza. Per molti intellettuali del XVII secolo il carattere distintivo della sagesse moderne «è – afferma Donzelli – costituito dalla rinuncia al mondo da parte del savant, che si ritira in solitudine e nella sua individualità. È questo un segno comune alle diverse manifestazioni intellettuali dell’epoca, dal libertinismo al razionalismo, scetticismo, epicureismo, stoicismo e giansenismo» (p. 33). Figura emblematica di questo rifiuto del mondo è ad esempio Montaigne.

Il savant cade però in una serie di contraddizioni. Il mondo continua ad esistere e a configurarsi ancora come il bersaglio dei suoi giudizi critici. Inoltre l’atteggiamento scettico e asistematico preclude al savant anche la possibilità di conoscere se stesso. A tal fine egli dovrebbe infatti indagare il passato per meglio comprendere il proprio presente. La sagesse moderne incarna così agli occhi di Vico un sapere vuoto, lontano dal mondo, che, per la sua tendenza allo scetticismo-relativismo, corre il rischio di sfociare o di favorire l’avvento di una barbarie della ragione.

Con tale espressione Vico intende quel sapere che si ripiega su stesso, che abbandona il “senso comune” e privilegia gli interessi dell’individuo. Quando prevale questa nuova barbarie, speculare e per certi versi più pericolosa della barbarie dei bestioni, «la ragione, l’intelligenza, il sapere non arrivano a contenere la corruzione, essi stessi producono nuovi malesseri e patologie che non sanno né governare né guarire» (p. 91).

È proprio il concetto di barbarie della ragione ad essere assunto da Donzelli a vero e proprio paradigma per interrogarci sulla modernità di Vico nel nostro tempo. Mai come oggi, si osserva con grande efficacia nel volume,

«la miscela esplosiva costituita dalle nuove tecnologie, da un potere cieco, dalla “boria” dei dotti e delle nazioni, ha prodotto una barbarie strategica, che non fa neppure notizia, perché è perfettamente in linea con le barbarie della riflessione della nostra epoca» (p. 105).

L’immenso potere dei social e del loro linguaggio stringato e ad effetto; l’autorità sopravvalutata di opinionisti e di influencer di dubbie competenze che si improvvisano specialisti nei più disparati ambiti disciplinari; e ancora le tribune politiche, trasformate in spazi virtuali in cui non ci si scontra con argomentazioni basate sull’esperienza ma a forza di tweet e slogan; questi e tanti altri sono i sintomi di un’epoca che vede la ragione imbarbarita, messa al servizio dei desideri, delle passioni e degli istinti più bassi.

Ha quindi pienamente ragione Donzelli a sostenere che Vico è un pensatore attuale. Il filosofo napoletano costituisce infatti un'utile lente di ingradimento per cogliere le molteplici contraddizioni della nostra epoca.

Due valori aggiunti arricchiscono infine L’età dei barbari. Al saggio critico segue una bella traduzione in italiano moderno (con testo originale a fronte) della Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio che serve per introduzione dell’opera inserita da Vico nella seconda edizione della Scienza nuova (1730). La traduzione rende godibile e fruibile, anche a un pubblico di non esperti, un testo introduttivo che riassume le tesi principali espresse nella Scienza nuova. L’operazione ci sembra talmente ben riuscita che sarebbe auspicabile riproporla per l’intera opera.

Chiude il volume un'importante appendice critica, che ripercorre le tappe più significative della storiografia vichiana in Italia e all’estero.