PAUL ALSBERG, L'enigma dell'umano. Per una soluzione biologica

 

Paul Alsberg, L’enigma dell’uomo. Per una soluzione biologica, a cura di Elena Nardelli, Roma, Inschibboleth, 2020.

Recensione di Salvatore Grandone

Qual è la posizione dell’uomo nel cosmo? Qual è la differenza dell’uomo, il suo “luogo” all’interno del vivente? Su queste domande l’antropologia filosofica ritorna con insistenza nel XX secolo. Ne L’enigma dell’umano – Elena Nardelli ha curato la prima traduzione in italiano della seconda edizione dell’opera, quella del 1937 –, Paul Alsberg offre un’ipotesi originale e quasi in controtendenza rispetto alle indagini condotte nello stesso periodo da nomi più noti quali Scheler, Gehlen e Plessner. Per Alsberg il proprio dell’uomo non è legato alla neotenia, a carenze sul piano istintuale o ancora, secondo una lunga tradizione filosofica, al possesso della parola. La specificità dell'uomo deriva dal suo modo di rispondere alle sfide dell'ambiente. Mentre gli animali si adattano attraverso il corpo, l’uomo lo fa con la liberazione dal corpo. Quello dell’uomo è un adattamento esomatico, che avviene per mezzo della tecnica e che induce una progressiva e irreversibile disattivazione del corpo. Leggiamo Alsberg:

«Disattivazione del corpo significa liberazione dal corpo! Questo è il cuore del problema evolutivo dell’essere umano. Lo strumento artificiale infatti non è un mero “sostituto” del corpo, ma è invece un mezzo di liberazione che svincola l’essere umano dalla limitatezza naturale del corpo. In questo modo il principio della “disattivazione del corpo” si presenta come un principio della “liberazione dal corpo” e la grande opposizione tra l’evoluzione animale e quella umana trova un’espressione corrispondente al suo significato più profondo soltanto quando lo riportiamo alla seguente formula fondamentale: l’animale sta sotto il principio evolutivo della “costrizione del corpo”, l’essere umano sotto quello della “liberazione dal corpo”». (p. 92)

La tecnica non costituisce quindi un’estensione del corpo. Un martello non è ad esempio un prolungamento della mano, nel senso che la potenzierebbe. La prospettiva di Alsberg è più sottile: gli strumenti servono a disattivare il corpo, a farne a meno. Il martello non potenzia la mano, ma la disattiva; allo stesso modo, quando “taglio una mela con il coltello”, tendo a disattivare la dentatura (p. 97). Nell'evoluzione del vivente l’uomo incarna quindi per Alsberg un punto di rottura. L’uomo non è una scimmia più intelligente o l’animale che compensa le sue deficienze corporee con la tecnica. Secondo il filosofo bisogna infatti invertire il rapporto causa-effetto. Non è la presenza di un corpo meno funzionale alla sopravvivenza ad innescare la nascita della tecnica; è piuttosto la progressiva liberazione dal corpo generata dalla tecnica a creare disadattamento. Il ricorso agli strumenti ha infatti determinato il disimpegno e le conseguenti atrofizzazione e regressione dei caratteri morfologici che rendevano un tempo il corpo dei nostri antenati ominini più forti e in grado di assolvere compiti di vitale importanza. Alsberg è dunque agli antipodi della concezione gehleniana dell’uomo come animale prematuro: la neotenia sarebbe solo l’effetto secondario di una frattura epocale introdotta dalla tecnica.

«Non si può ipotizzare altrimenti – afferma Alsberg – se non che l’essere umano delle origini, nell’istante in cui è emerso dai suoi predecessori animali, aveva ancora a disposizione un corpo intatto, completamente adatto alla natura. Soltanto con l’accoglimento dello strumento egli aprì la breccia nell’integrità del corpo, poiché gli organi disattivati si abbandonarono a una regressione fisiologica» (p. 156).

L’ipotesi del carattere “prematuro” dell’uomo delle origini si scontra con i tempi lunghi dell’evoluzione tecnologica. Come avrebbe potuto sopravvivere l’antenato dell’uomo con un corpo non adatto a un ambiente pieno di insidie e di pericoli? È molto più plausibile ipotizzare all'origine della nostre specie un essere ibrido, con un corpo simile a quello dei primati, ma in possesso di alcuni schemi comportamentali che ne avrebbero segnato in maniera decisiva il destino. Alsberg suppone l’esistenza di un antenato comune alle scimmie antropomorfe e a all’uomo, il Metapiteco, dotato di una morfologia mista, con caratteri umani – l’andatura eretta e la forma simil-umana del cranio – e scimmieschi – la forza e la possanza fisica.

Sebbene la teoria di Alsberg sull’ominazione sia oggi in parte superata, sul versante filosofico la sua riflessione è di grande attualità. Il nostro antenato era forse meno robusto e alto di quanto credeva Alsberg, ma di sicuro più adatto all'ambiente dell'uomo attuale. È innegabile infatti che la tecnica abbia prodotto una vera e propria rivoluzione nella nostra specie, determinandone una parziale involuzione fisiologica. Gli odierni sviluppi negli ambiti delle neuroscienze e della cibernetica sembrano quasi aprire a possibili scenari distopici in cui attraverso la tecnica l’uomo potrebbe disattivare il corpo al punto di liberarsene del tutto, di distaccarsi completamente dalla sua radice-matrice animale. Ne L’enigma dell’umano Alsberg non coglie il lato inquietante della sua tesi: sono numerosi i passaggi del libro in cui l’autore esalta la tecnica; come del resto non manca il quadro teleologico che vedrebbe nell’uomo il coronamento dell’evoluzione. Ma se eliminiamo questi “arcaismi”, il testo di Alsberg può essere considerato un classico dell’antropologia filosofica.