ALBERTO GIOVANNI BIUSO, Animalia

 

 

 

Alberto Giovanni Biuso, Animalia, Catania, Villaggio Maori Edizioni, 2020

Recensione di Salvatore Grandone

 

Il fenomeno fondamentale del mondo non è nient’altro che la luce che attraverso noi […] è resa possibile, ma che dall’altro lato rende di nuovo possibile il cammino in quanto dà l’orientamento, in quanto lascia comprendere ciò che ci circonda e si forma in noi, sotto quale sguardo e sotto quale controllo. (Jan Patočka, L’interno e il mondo, a cura di Marco Barcaro, Milano, Mimesis, 2018, p. 99)

 

Come comprendere le molteplici differenze del vivente? Dove situare il luogo privilegiato per interrogare l’animalità dell’uomo e l’umanità dell’animale?

Queste sono alcune delle domande intorno a cui si sviluppa la trama di Animalia, un testo denso che affronta la questione dell’animale in una prospettiva plurale, ad un tempo ontologica, epistemologica, antropologica e socio-politica. Il lavoro di Alberto Giovanni Biuso prolunga idealmente le riflessioni sviluppate in Tempo e materia, mostrando sul campo come la metafisica del tempo-materia sia un valido strumento per descrivere il mondo della vita.

Il punto di partenza è impostare in modo corretto la questione della differenza. Spesso si tende a ipostatizzare la differenza uomo-animale: l’animale è definito come ciò che è diverso dall’uomo e relegato in una dimensione di inferiorità e di passività che legittimerebbe ogni forma di violenza e sopruso nei suoi confronti. In questo caso la differenza è puramente ideologica e non colta attraverso l’attenta descrizione delle complesse reti di filiazioni che legano i viventi.

«Ci sono delle parole – osserva Biuso – che quanto più vengono pronunciate e ascoltate, tanto più perdono di significato, sino a indicare qualcosa che di fatto non esiste. Animale è una di queste parole, forse la più pervasiva e la più antica. L’animale, infatti, non esiste. Questo suono chiude la molteplicità biologica dentro un segno che la sottopone al dominio di una sua parte, la parte umana. Questo suono-grimaldello apre le pratiche umane alla legittimità dello sterminio. Il risultato è che l’animalità diventa invisibile, prima di tutto l’animalità che noi stessi siamo» (p. 29).

 Si cade in una prospettiva riduzionistica: l’animale diventa una macro-categorica, un concetto vuoto che ingloba e mette sullo stesso piano un’ape, una formica, un bonobo o una medusa. L’altro errore, speculare e sempre ideologico, sarebbe umanizzare l’animale al punto di annullare ogni differenza: è la via del monismo ontologico, in cui l’animale è quasi assimilato a uomo ipodotato, a un essere muto, ma identico a noi. Entrambe le opzioni assolutizzano l’“uomo misura”: l’uomo si erge a “metro” che nomina, definisce e assegna il “giusto” posto a ogni specie vivente.

D’altra parte come possiamo riflettere sull’animale senza riferirlo all’essere che noi siamo? Possiamo evitare l’antropocentrismo, dal momento che l’uomo è l’unico vivente che può interrogare l’animalità?

Per uscire da queste impasse, Biuso interpreta in modo originale un gesto filosofico che accomuna diverse filosofie della vita e del vivente del Novecento – si pensi ad esempio alle prime pagine de L’evoluzione creatrice (1907). È necessario ricollocare l’uomo all’interno del movimento tempo-materiale dell’essere. L’uomo è corpo-mente, una declinazione del tempo che si fa senziente. Certo, il nostro essere senzienti ha una sua specificità, ma «l’umano è unico […] come unica è la forma di esistenza di ogni altro vivente» (p. 38). Lungi dall’essere “la” differenza, la nostra è semplicemente “una” differenza, unica e irripetibile, in un continuum di differenze uniche e irripetibili. Tra le specie non sussistono allora linee nette di separazione, ma confini dinamici, o, per ricorrere a un termine di Gilbert Simondon, “metastabili”.

«Soltanto un’ontologia relazionale può cercare di descrivere e comprendere la natura umana dentro la natura, l’animalità umana dentro l’animalità. Un’ontologia post-cartesiana e post-umanistica che riconosca nell’eterospecifico una delle condizioni di ogni specie, compresa la nostra; che sia sapiente della differenza come titolo per ogni identità» (p. 41).

Il concetto di “specie” deve essere allora usato con la massima prudenza. La specie non va intesa come una categoria ontologica statica che definirebbe una volta per tutte due o più regioni del vivente. È piuttosto un concetto perfettibile e umano con cui proviamo a cogliere le proprietà caratterizzanti le configurazioni mestabili di gruppi di organismi. È evidente che scegliere i “criteri” che definiscono una specie in quanto tale è un’impresa ardua, soprattutto poi se si ha la pretesa di applicarli a tutti i regni del vivente. Senza voler scendere nel dettaglio di una questione molto ampia che riguarda la filosofia della biologia, ricordiamo tra le diverse definizioni di specie quella che forse riesce meglio a evitare l’essenzialismo senza sfociare nel puro nominalismo. Per il biologo tedesco Ernst Mayr le specie sono gruppi di popolazioni naturali realmente o potenzialmente interfecondi e riproduttivamente isolati da altri gruppi analoghi. Pur con i suoi limiti, questa definizione di specie ha il vantaggio di introdurre, leggiamo Mayr, «un nuovo e diverso modo di pensare la natura […]. Coloro che pensano in termini di popolazioni pongono l’accento sull’unicità di ogni cosa nel mondo organico; per loro, ciò che è importante è l’individuo, non il tempo […]. Non esiste un individuo ‘tipico’ e i valori medi sono astrazioni. In biologia, molte di quelle che sono state chiamate ‘classi’ sono popolazioni che consistono di individui unici» (E. Mayr, Storia del pensiero biologico, Torino, Boringhieri, 1990, p. 46).

Mayr definisce così la specie in termini dinamici mettendo al centro l’individuo e non i concetti astratti di “classe”. L’ontologia relazionale di Biuso entra dunque in risonanza con un importante filone della biologia contemporanea che ha messo in discussione l’orizzonte epistemologico eleatico e platonico della scienza moderna.

Il modo di affrontare la questione del vivente di Biuso si inscrive anche nel solco di un'importante tradizione fenomenologica che supera la visione dell’animale-macchina. Biuso amplia infatti le analisi di Heidegger sviluppate ne I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine. Spessi i critici si sono soffermati sulla caratterizzazione heideggeriana dell’animale come essere-povero-di-mondo, leggendola in senso negativo. In realtà, per Biuso, che riprende una lettura avanzata da Derrida, in questa povertà è implicito un “più”: l’animale è povero di mondo, ma non privo di mondo. Con Jakob Johann von Uexküll si potrebbe aggiungere che ogni animale agisce e reagisce su un ambiente che gli è consunstanziale. In Ambienti animali e ambienti umani von Uexküll ricorre a una bella metafora per descrivere il rapporto animale-ambiente:

«Possiamo rappresentarci tutti gli animali che vivono intorno a noi (coleotteri, farfalle, mosche, zanzare, libellule) come chiusi in una bolla di sapone che circoscrive il loro spazio visivo e che contiene tutto quello che per loro è visibile. Ogni bolla ospita gli assi dimensionali dello spazio operativo e quelli che abbiamo chiamato “luoghi”, grazie ai quali lo spazio di ciascun animale mantiene la solidità della sua struttura» (Jakob von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, a cura di Marco Mazzeo, Roma, Quodlibet, p. 74)

Ogni vivente costituisce il suo essere differenza nella e attraverso la dialettica tra il corpo (da intendere nel senso husserliano di corpo-proprio) e l’ambiente. Non si danno corpi viventi senza ambienti e, viceversa, ambienti senza corpi viventi.

Salta così l’opposizione statica dentro-fuori di matrice cartesiana, l’idea che gli animali siano macchine senza coscienza e senza ambiente di cui si possa disporre a piacimento;  salta anche la cortina di ferro che separerebbe l’uomo dalla no-man’s land dell’animale.

«Ogni animale, umani compresi, ha il proprio modo di stare al mondo, le proprie specificità etologiche, la propria struttura percettiva e situazione spaziotemporale. In una parola la propria Umwelt, lo spaziotempo che ogni vivente consapevole non si limita ad abitare ma lo spaziotempo che è» (A.G. Biuso, op.cit., pp. 159-160).

D’altra parte non basta denunciare la hybris dell’uomo, che nella sua foga tecnocratica riduce la natura a mero serbatoio di risorse; occorre comprenderne le ragioni. Con grande lucidità, e senza cadere nella facile retorica animalista, Biuso mostra le radici antropologiche e biologiche della violenza umana nei confronti degli animali.

«La violenza, difensiva e d’attacco, è contenuta nei programmi genetici di molte specie, comprese le scimmie antropomorfe e l’Homo sapiens. Ma anche l’arte, la curiosità, il gioco sono inscritti nei nostri geni. Possiamo tentare di diminuire il peso e la funzione della violenza gratuita a favore del gratuito gioco della conoscenza» (pp. 105-106).

L’aggressività è inscritta nel nostro patrimonio genetico, e un elemento costitutivo della nostra natura. Tuttavia tra-dotta sul piano della cultura, dell’artificiale e della tecnica può assumere dimensioni mostruose, aberranti e mettere a repentaglio la nostra sopravvivenza e quella di tante altre forme di vita. Ecco perché è necessaria bilanciarla con il gioco, la curiosità, con quella Gelassenheit che è sia ontologico ascoltare l’essere sia, sul piano della praxis, riflessione responsabile sulle radici del nostro bios, del ventaglio del vivente di cui facciamo parte.  

Comunichiamo ai nostri lettori che il professore Alberto Giovanni Biuso ci ha concesso un'intervista per approfondire alcuni importanti aspetti di Animalia.


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