SALVATORE FIORELLINO, Un nuovo inizio

 

 

Salvatore Fiorellino, Un nuovo inizio, Leone, Milano, 2017.

Recensione di Pasquale Vitale

 

Il romanzo di esordio di Salvatore Fiorellino presenta fin dal titolo un richiamo al concetto di natalità espresso da Hannah Arendt in Vita Activa (1954). Il nascere è il luogo nel quale la singolarità di ognuno sorge come ciò che è imprevedibile e irripetibile, in cui si annuncia il nuovo che viene al mondo. Chi nasce è infatti “nuovo” in un senso pregno di concretezza: è una singolarità che viene dal nulla per farsi progettualità.

I personaggi del romanzo del nostro autore appaiono, e in questo apparire sulla scena del mondo risiede il loro fondamento, perché non esiste alcuna scissione tra corpo e apparire nel mondo; ciascuno di loro, con la parola e con l’agire, si inserisce in un insieme di significati germinando per una seconda volta o naufragando. La trama narrativa è lineare, lo stile paratattico, il lessico forbito, le vicende esistenziali accadono nell’arco di ventiquattro ore. Il tempo è però molto dilatato, perché Fiorellino ha l’abilità di farcene saggiare la durata attraverso i diversi personaggi, grazie agli espedienti narrativi del monologo interiore, dell’analessi e della prolessi. Non è un caso, poi, che tutto avvenga in un solo giorno, in quanto la vita è sempre il frutto di scelte che si assumono nel presente e che poi ci condizionano, fin quando non decidiamo di tradirle per prenderne altre ed essere altrimenti rispetto a ciò che eravamo, anche perché, parafrasando un passo di Kierkegaard (La ripetizione), “essere in vita è come svegliarsi dopo essere stati ubriacati da reclutatori di marinai e imbarcati su una nave che voga e non si sa verso dove”. In questo senso, i personaggi del romanzo di Fiorellino prendono rotte diverse: c’è chi come Clara sceglie di vivere eticamente, ovvero di avere il suo centro in sé; chi come Maria sceglie di vivere esteticamente, ovvero in modo eccentrico, e di avere il suo centro nella periferia.  In altri termini, c’è chi sceglie di seguire l’imperativo categorico kantiano e quindi fare in modo che la ragione comandi alla volontà di essere razionale, soppesando le conseguenze delle proprie azioni, con il fine di costruirsi un’identità ed essere un Singolo su cui poter contare e a cui poter affidarsi. Chi, invece, sceglie di spendere la propria esistenza nei mille rivoli della frivolezza, lasciandosi trasportare da effimeri bisogni e desideri che finiscono per condurre, poi, alla disperazione. La mancanza di comunicazione dipende proprio dalla diversità di approccio all’esistenza e dall’autenticità o inautenticità con cui si vive. Maria parla molto ma non ascolta, parla ma non comprende le ragioni dell’altro, parla ma non dice nulla, e l’autore infatti, attraverso Bianca, la biasima, affermando che “solo gli stupidi possono essere ammaliati da un’ostentazione di conformismo esasperato, ma chi ha un briciolo di intelligenza o di buon gusto avrebbe trovato, in certi atteggiamenti, un che di pacchiano e di inutile” (p. 112). Se Clara ed Emanuale sono straordinari nella loro ordinarietà, la straordinarietà di Maria è invece come il tumulto di un mare mosso solo in superficie, convinta com’è che gli ostacoli della vita vadano evitati. E’ l’autore stesso, attraverso la figura di Emanuele, a far intendere che “l’opposizione è indispensabile per la coscienza e la maturità di se stessi, senza non ci sarebbe l’urto che consente di ritornare su di sé per migliorarsi” (p. 79). Questa riflessione mi sembra quasi entrare in risonanza con un celebre passo della Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel: “la vita dello Spirito non è quella che si riempie di orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa”.  Allo stesso modo ciascuno conquista la propria verità a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta, perché non esistono torri d’avorio, gabbie dorate o porti in cui nascondersi; il nostro regno, come afferma Saba in Ulisse, “è quella terra di Nessuno, il porto accende ad altri i suoi lumi, al largo ci sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore”.  Nel romanzo di Salvatore Fiorellino  troviamo, amalgamate e intrecciate attorno alla nascita di un bambino - che è poi è il simbolo della rinascita di alcuni personaggi -, molte delle figure esistenziali che la filosofia e la letteratura ci hanno trasmesso: l’inetto, l’esteta, l’uomo etico, il demoralizzato da eventi drammatici e infine il paralizzato esistenziale, incapace di dare una direzione alla propria vita, che però, poi, impara a spiegare le vele e a non lasciarsi solo trasportare dai venti. Proprio quest’ultima figura, rappresentata nel romanzo da Bianca, incarna la chiave di volta del romanzo, perché si trova al centro fra due mondi, fra due modalità di essere da cui inizialmente si lascia schiacciare, salvo poi comprendere di dover agire, perché, come afferma Lee Master in Alza le vele “dare un senso alla vita può sfociare in follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vago desiderio, è una nave che desidera il mare eppure lo teme”. Bianca sceglie di urtare contro la realtà per sperimentate limiti e pregi e far qualcosa della propria vita. Dalla sorella e dalla madre ha imparato a capire chi non vuole essere, da Clara ha imparato, per dirla con le parole di Niccolò Fabi in Costruire, che “non si vive di soli inizi/ di eccitazioni da prima volta/quando tutto ti sorprende e nulla ti appartiene ancora/ perché nel mezzo c’è tutto il resto/ e tutto il resto è giorno dopo giorno/ e giorno dopo giorno è/ silenziosamente costruire”.