MARCO BERETTA, La rivoluzione culturale di Lucrezio

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Marco Beretta, La rivoluzione culturale di Lucrezio. Filosofia e scienza nell’antica Roma, Roma, Carocci, 2017

Recensione di Salvatore Grandone

 

Il volume offre un’ampia analisi e contestualizzazione storica della filosofia di Lucrezio. L’autore parte dalla ricostruzione dello stato delle scienze e delle tecniche e della diffusione dell’epicureismo nell’età tardo repubblicana. Sfatando alcuni pregiudizi sulla poca fortuna delle scienze della natura presso i romani, Beretta dimostra la presenza nella Roma del I a. C. di molti saperi specialistici e di uno sviluppo notevole della tecnica, in particolare della meccanica e dell’architettura, favorito da una buona conoscenza del calcolo matematico – anche grazie alla diffusione di correnti neopitagoriche. È proprio all’interno di questo milieu, attento alla scienza e aperto all’esperienza, che si sviluppa l’epicureismo. Se è vero che molti celebri scrittori e filosofi latini, vedono in questa corrente un pericoloso attentato alla tradizione e alla religione dell’epoca, non manca, sia tra gli intellettuali sia tra gli uomini politici del tempo, chi aderisce alla filosofia epicurea o ad alcune delle sue tesi. Del resto, la filosofia epicurea gode tra i romani di un certo consenso non solo per la sua proposta etica di liberare l’uomo dal dolore e dalla paura, ma anche perché elabora una rappresentazione della natura che non è così anti-intuitiva e lontana dall’esperienza sensibile. Questo secondo punto costituisce senz’altro un elemento molto importante del lavoro di Beretta: è quasi un luogo comune ritenere che la fisica epicurea, ancor più di quella democritea, sia segnata da numerosi errori che la rendono inaccettabile; non solo, molti sono gli studiosi che identificano l’epicureismo con il suo messaggio etico. Ora, Beretta dimostra come in realtà l’epicureismo rivaluti la dimensione sensibile, ossia il ruolo dei sensi nel processo conoscitivo, e quindi sia più attento di altre filosofie del tempo al dato dell’esperienza. Mentre Democrito mette in primo piano il pensiero astratto e vede nei sensi una fonte di illusione, per Epicuro i sensi sono in grado di fornirci la chiave d’accesso all’essenza della realtà. Tale centralità dell’esperienza sensibile assume in Lucrezio una portata ancora maggiore. Il poeta si trova davanti alla necessità di “tra-durre” in latino il lessico della filosofia democriteo-epicurea: questa operazione è pero possibile solo coniando dei termini nuovi e scegliendo all’interno della lingua latina quei vocaboli che più sono vicini al retroterra culturale dei propri lettori. Da qui l’esigenza di individuare parole in grado di rievocare cose o processi naturali esperibili da tutti. Non è un caso ad esempio che Lucrezio traduca il termine “atomo” con semina rerum, primordia, genitalia corpora, exordia, radices ecc.: il poeta sceglie infatti vocaboli che possono «aiutare a comprenderne proprietà fisiche e biologiche» (p. 140). Così il lemma “atomo” è tradotto con termini concreti, capaci di richiamare subito l’attitudine dell’atomo a combinarsi con altri atomi. Il cuore della riflessione lucreziana non è per Beretta la descrizione astratta del mondo microscopico, ma la comprensione del mondo macroscopico attraverso la fisica dei concilia (gli aggregati di atomi). «Mentre per Democrito l’atomo, al pari del punto geometrico, è l’architrave del sistema filosofico, per Lucrezio il fondamento ontologico della realtà è costituito dagli atomi combinati in molecole. (…) I fenomeni interessanti, infatti, sembrano svilupparsi solo quando gli atomi si trovano combinati in concilia» (p. 161). Certo, Lucrezio è ancora lontano dalla nostra chimica e la sua fisica non si basa sul metodo matematico-sperimentale. Tuttavia non si può negare che «l’attenzione prestata da Lucrezio ai “misti” è una conseguenza del tentativo di riportare la definizione della natura atomica all’esperienza quotidiana» (p. 165). Sono molte le espressioni di Lucrezio che invitano il lettore a riflettere su concetti e dati osservabili (p. 176), anche se è difficile dire quanto «la frequenza degli appelli lucreziani all’evidenza visiva segnali un’effettiva consapevolezza, da parte del poeta, della valenza scientifica dell’osservazione guidata dei fenomeni naturali» (Ibid.). In queste pagine Beretta sembra riprendere con maggiore consapevolezza e perizia filologico-esegetica un giudizio espresso già da Bergson in Extraits de Lucrèce (1883): «Lucrezio – afferma Bergson – è un osservatore appassionato della natura: eccelle nel coglierne il lato pittoresco, le sfumature mobili e cangianti. Particolare ammirevole, Lucrezio scorge nella natura al tempo stesso ciò che interessa il geometra e ciò che seduce il pittore. Si potrebbe paragonarlo a un grande artista che, dinanzi alla modella che posa, ne ammira la bellezza, la comprende, l’esprime meravigliosamente, ma non può impedirsi di scomporla col pensiero in fibre e in cellule, di farne l’anatomia» (Bergson, Extraits de Lucrèce, Paris, Delagrave, 1883, tr. it. di A. Carenzia, Lucrezio, Milano, Medusa, 2001, p. 54). La fisica e la chimica di Lucrezio sono senz’altro ancora “pittoresche”, e inoltre quando si passa dal piano fisico a quello cosmologico l’esigenza di ricondurre i fenomeni celesti all’esperienza quotidiana si rivela – sottolinea Beretta – perfino controproducente. Se la fisica terrestre lucreziana presenta diverse buone intuizioni, altrettanto non si può dire della fisica celeste. Non a caso i detrattori della fisica epicurea hanno sempre puntato il dito contro la cosmologia.

Nonostante i molti limiti – del resto inevitabili e legati al contesto storico –, la fisica epicurea e in particolare il De rerum Natura di Lucrezio, che ne costituisce lo sviluppo e l’ampliamento, godranno di un successo notevole durante tutta l’età moderna. Molti sono gli scienziati e i filosofi che troveranno in Lucrezio un precursore delle loro teorie: si pensi ad esempio a Newton, a d’Holbac o a Kelvin. Senz’altro è difficile determinare fino in fondo i motivi della longevità in ambito scientifico del De rerum natura, ma «l’appropriazione di Lucrezio – conclude Beretta – da parte degli scienziati rivela il carattere multiforme e interdisciplinare della cultura scientifica, mettendo in evidenza una volta di più l’inadeguatezza di chi guarda ancora oggi alla scienza della natura come una forma del sapere arido, specialistico e avulso dal proprio contesto culturale» (p 264).